ARINGHE E SCOTCH
Some hae meat and canna eat.
And some wad eat that want it:
But we hae meat and we can eat,
Sae let the Lord be thankit
(Robert Burns)
Presagendo il sopraggiungere di una piacevole serata, il signor Nielsen scivolò sotto il pastrano appeso all’appendiabiti a forma di testa di beccaccino, si chiuse la porta alle spalle e puntò dritto verso il centro di Edimburgo. L’aria gelida soffiava forte tra i corridoi di mattoni e tufo delle casette del quartiere, producendo un susseguirsi di fischi ed ululati granguignoleschi.
Il signor Nielsen, il quale possedeva spalle piuttosto larghe, vi si strinse dentro, come farebbe un allocco infreddolito, e si sistemò la pistagna inamidata attorno al collo. La drogheria del signor Magnusson si trovava a pochi isolati in direzione nord. Imboccò la strada che portava al porto, dietro cui il sole stava lentamente tramontando e prese a camminare a ritmo sostenuto. Doveva fare presto. Gli ospiti sarebbero arrivati attorno alle venti di quella sera, aspettandosi, quantomeno, di trovare qualche succosa aringa affumicata dolcemenete adagiata in una pirofila guarnita ed un paio di panetti di burro salato sistemati su dei piattini decorati. Ed un paio di bottiglie di whiskey, naturalmente, pensó il signor Nielsen. Come poteva esserci, dopotutto, uno scotch party senza un paio di buone bottiglie di whiskey, riflettè il signor Nielsen ravviandosi i folti capelli corvini come per togliersi l’aria di uno un po’ troppo trasandato.
Si fermò per darsi un’altra passata tra i capelli, mentre l’imbrunire incominciava lentamente ad accarezzare le gru per l’alaggio giù al molo. Era il segno che forse non mancava che poco più di una mezz’ora al tramonto. Accelerò il passo. Improvvisamente, una frustata di vento gli sferzò il volto. Il cappello gli cadde, si ridestò di colpo e quindi bestemmiò: “Perbacco! Ma che diavolo è diventato il West End?”. Nemmeno in campagna dallo zio Bill si era mai visto un ventaccio simile, pensò.
Trotterellò in avanti e calciò seccato un mucchio di foglie accumulatesi sotto di un grosso acero mentre si tirava su, cappello alla mano. Il signor Nielsen era un uomo di un certo lignaggio e di deliziosa compagnia, tuttavia, vi erano tre cose che egli detestava particolarmente: gli unionisti irlandesi, il black pudding ed i cambi di stagione.
Aveva come l’impressione di non essere mai pronto. Non era mai abbastanza magro e in forma per l’estate. Non era mai sufficientemente appagato dall’estate per affrontare l’autunno. E per quanto riguardava l’inverno, beh, vi erano un mucchio di cose che potevano andare storte durante il lungo inverno scozzese. Innanzitutto, giungerci senza abbastanza denari da parte. Pensieroso, mise due dita nel panciotto, solleticò un paio di penny che tintinnarono nel taschino e sorrise dolcemente, volgendo lo sguardo verso il tramonto, raggiante.
Mentre il signor Nielsen camminava e rifletteva su questa ed altre faccende, la strada prese a salire sino a raggiungere una stretta galleria su cui passava la ferrovia che arrivava prima a Waverley, e poi a Haymarket. In lontananza, si poteva udire il crescente sibilo di un treno avvicinarsi. A parte questo ed un piccolo gatto che frugava nell’immondizia dietro una bottega, era tutto ordinariamente tranquillo. Due piccioni tubavano su una grondaia e avevano nel frattempo riempito di guano una botte messa a mo’ di tavolino davanti al pub sottostante. In lontananza si sentivano le voci angeliche dei bambini del coro della Saint Mary Ward.
Forse, dopotutto, non era così impreparato per questo inverno. Quel senso di inadeguatezza e di mancanza era dato, per lo più, dall’assenza di una ragazza nella sua vita o, per lo meno, dalla presenza di una donna con cui poter svernare quel gelido 1954. E poi, perché mai quell’inverno sarebbe dovuto essere diverso da tutti gli altri già trascorsi ad Edimburgo?
Il
treno che prima sembrava così lontano passò come una saetta sopra la testa del
signor Nielsen, quasi a ridestarlo dal tepore di quei pensieri.
Il gatto si tuffò nel cestino, impaurito, ed i piccioni volarono via, verso la baia.
Il signor Nielsen, riprese quindi a camminare verso la collina, lungo una strada lastricata che si snodava poco più in là in una serie di vicoli che
componevano la città vecchia. Una di esse, forse la più buia e sporca tra le
altre lí intorno, ospitava una serie di botteghe, taverne e gastronomie. Su una di queste spiccava ostinata la precaria insegna di legno della pescheria del signor Magnusson. L’insegna,
che dondolava pericolosamente al ritmo del vento, ospitava uno stoccafisso
appena stilizzato con lo sguardo vuoto ed il nome del proprietario dipinto a caratteri dorati. Il signor
Magnusson era un omino svedese tarchiatello e baffuto, che dopo molto
traversate per l’Atlantico (e chissà quali altri mari), aveva deciso di fare della
capitale scozzese il suo porto sicuro.
“Buonasera
signor Magnusson”. Esordì il signor Nielsen, chiudendosi il ventaccio di fuori.
Il signor Magnusson, che aveva una tale aria indaffarata che pareva sarebbe
andato in rovina da un momento all’altro se solo avesse provato a tirare la
testa fuori dalla dispensa in cui stava trafficando dietro al bancone, non
sembrò accorgersi del signor Nielsen.
-
Come sta signor Magnusson? Come sono queste aringhe? - rincalzò il signor
Nielsen al suo indirizzo, indicando alcuni pesciolini accumulati in una
cassetta.
E
come vuole che siano? – fece il signor Magnusson, emergendo come uno struzzo da
dietro il bancone - Non vede che sono ancora da marinare? Certo, certo. Certo
che gliele posso vendere così. Se le marini pure lei, se ritiene!
Il
signor Nielsen, presa una manciata di aringhe e le affondò nel sacchetto che
nel frattempo l’omino svedese gli aveva maldestramente porto.
Senta,
signor Magnusson, ma le aringhe le ha anche affumicate? - Il signor Magnusson
lo guardò come se avesse fatto un complimento sgradito a sua madre. - Se ho le
aringhe affumicate dice? Ma non lo sente questo odore? Lo sente questo profumo?
Guardi, guardi lei stesso le dico. - Il signor Magnusson, che aveva lo sguardo
offeso, afferrò il signor Nielsen vigorosamente per la collottola, lo issò
dietro il bancone e gli tirò la testa dentro la dispensa. Allineate su cinque
fili ben tesi, vi erano almeno un centinaio di aringhe rinsecchite. Il signor
Magnusson indicò con orgoglio, oltre la spessa finestra, l’affumicatore di laterizi
che si ergeva nel mezzo del rozzo ed incolto giardinetto.
Come gli amanti di Edimburgo sanno bene, scendendo giù per High Street, dando le spalle alla collina erbosa di Castle Rock, si trova tutta una serie di negozietti e tavernette caratteristiche, con le facciate in legno, dipinte di blu, rosso e verde bottiglia. Tra questi, poco prima del Jolly Roger Pub, si trova il Royal Mile Whiskey Store, uno dei più trafficati negozi di scotch di tutta Edimburgo. Il signor Nielsen che ivi si recava spesso a rifornirsi, scivolò dentro il negozio, intercettando una persona che usciva. Uno scampanellío acuto annunciò il suo ingresso al tizio tozzo e grasso che stava allineando alcune bottiglie sopra di uno scaffale impolverato.
Questo
ragazzotto robusto si chiamava Callum, ed aveva la pancia così grossa e
pesante che gli pendeva sopra la cintura a tale punto da celarla quasi completamente alla
vista. Almeno da una prospettiva frontale.
– Buonasera Cal, come sta tuo padre? Senti, non è che hai qualcosa di speciale per i miei ospiti? – Chiese il signor Nielsen speranzoso. Quello lo guardò un po’ smarrito e lo condusse verso una vetrinetta dall’altra parte del negozio. Dopo un po’ gli porse una bottiglia di una distilleria che non conosceva delle isole Orcardi e gli strizzò l’occhio. – Mio padre starebbe molto meglio se invece di bersi cinque pinte al giorno si schiarisse le idee con un goccio di questo signor Nielsen. “Highland Park Distillery” – lesse quello ad alta voce. - Dicono sia il miglior whiskey di tutta la Scozia. E glielo giuro, signor Nielsen, di meglio non ce n'è!
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