BALLATA DEL CARMAGNOLA, IN PRIMA PERSONA



 E due e tre volte ne l’orribil fronte,
     Alzando, più ch’alzar si possa, il braccio,
     Il ferro del pugnale a Rodomonte
     Tutto nascose, e si levò d’impaccio.
     Alle squalide ripe d’Acheronte,
     Sciolta dal corpo più freddo che giaccio,
     Bestemmiando fuggì l’alma sdegnosa,
     Che fu sì altiera al mondo e sì orgogliosa.
(Ludovico Ariosto - Orlando Furioso)


Di tutti i banchetti e le celebrazioni, 
quelli che senz'altro più apprezzavo erano quelli in mio onore.

Ma non s'illuda il lettore,
 che nelle prossime righe vi si lodino venture e battaglie, 
chè della mia morte io vi canto. 
La morte di un traditore bastardo.

Ero un soldato mal pagato, ma onesto, al tempo. 
Un umile lanzichenecco dai modi gentili, che riusciva molto bene nel duro mestiere delle armi. 
Ero solito trucidare più nemici dei miei superiori e questi, 
per non perdere la faccia od il feudo, indicevano faraonici simposi in mio onore. 

Venivo celebrato come un divino e gli epiteti si sprecavano 
per la mia spada ed il mio coltello.
All'ora ero giovane e bello e non mi ponevo obiettivi di carriera. 
Ero modesto in licenza, ma furioso in battaglia e finchè la compagnia delle donne e del vino non mancava, ugualmente rimaneva integra la mia integerrima lealtà.

Ma all'animo pavido ed insolente di quel che ero, presto si sostituì quello di un paladino
avido ed ambizioso.

Dopo anni al soldo dei Visconti, passati tra scorribande a suon di scoppietto ed archibugio, 
il mio cuor si volse per la bella Venezia ed il Doge Foscari,
 il quale era generoso di parole e di danari.


Egli mi diede una nuova patria, a me che ero bastardo di nascita e per natura.
Mi fece prima comandante e poi conte e pagare due ghinee per ogni lancia spezzata.
Lauto lui era, di parole e di denari, mai mi fece carestia di lodi e di fasti.
Ma voltar gabbana una volta, per un soldato, é il peggior degli insulti per la professione,
 seppur vero che il mestiere del mercenario, per tanto vile, era pur sempre necessario.

Un dì di marzo alle porte di Piacenza, sul ceppo di un faggio
segato da due Mori prigionieri, tagliammo la testa all'Aliprandi,
il quale aveva ordito la mia morte, con l'insidia del veleno.

Nulla lasció presagire che la stessa sorte del mio congiuratore,
 sarebbe toccata anche a me.
Dopo sole settanta lune e qualche centinaio di teste,
 la mano del mio datore di lavoro  si sarebbe tramutata in quella del mio giustiziere,
 per averlo tradito, per un paio di ghinee.

Ed ora, mentre passo in rassegna, tutte le teste che ho mozzato, 
come per riconciliarmi con i miei nemici prima dell'ultimo sospiro, 
mi domando cosa corruppe quel mio animo insolente. 
Che dei soldi e del potere, mai nulla era importato.
Ma lanzichenecco son nato, e ciò comporta dolorosi fardelli,
 come la consapevolezza che il cuore a nessuno è per sempre votato.

Ed il Doge Foscari, saputo della mia congiura caló la mano senza indugio.
Giusta e severa, come si conviene ad una persona di cotanto ministero.
Giusta e severa, come quella di un padre con il figlio ingrato.
Dal patibolo in San Marco, la mia testa fecero rotolare,
un bimbo la calció, per tedio o per compassione, nel Canal Grande.
E laggiú giace ancor la reliquia della mia infamante sorte,
perpetuo monito ai predoni del potere,
che il fato gli riservi di raccoglier solo miserie.

Ed il mio
 sangue tuttora scorre, tra i canali di Venezia.



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