RATZ


"Il confine che divide la vita dalla morte è ombreggiato e vago" (Edgar Allan Poe)

Ratz. Le linee della cattedrale si stagliavano verso il cielo come se fossero strade provinciali che si perdono nell'oscurità della campagna mentre si defilano dal centro abitato. In giro quasi nessuno, solo in lontananza l'arpeggio blues dell'ennesima vittima delle ultime politiche sul lavoro stemperava il crepitio della pioggia che cadeva copiosa. Gli acronimi al neon dai tetti lungo la via che portava al porto sembravano sporgersi dalle impalcature che le reggevano, facendo scivolare l'acqua piovana sui borsalini dei passanti che non avevano premura di stare spiaccicati alle facciate dei palazzi. Ratz. 

Nel Queens la chiamano notte da lupi, ma per lui era solo una notte di merda come un'altra che schiumava dai tombini. Si infilò rapidamente nel primo taxi libero, sollevato di poter dare ristoro ai propri piedi che navigavano a vista nei crocs da nosocomio. - Dove la porto signore? - Si coprì le gambe nude con il tranch zuppo. - Il più lontano possibile da quì. -  Ratz. 
Con la fronte attaccata al vetro passava in rassegna la città che si sviluppava al di là del finestrino come un 35mm che corre sulla bobina. Ratz. Dove cazzo sei bastardo? Il suo volto apparve tra le sagome delle nuvole che riflettevano il chiaro della luna. Appoggiò la mano sul vetro gelato, ticchettando poi con l'indice ad uncino sulla superficie, immaginando, lentamente, di strappargli l'occhio di vetro che dava senso a quell'orbita vuota in cui sarebbe stato meglio un cumulo di piombo. Oh come avrebbe voluto scaricargli tutta la rivoltella in quel buco maledetto e vedere il suo sangue immondo mescolato ai tessuti cerebrali creare un Pollock sulla parete, mentre scola sul pavimento. 
La vendetta aveva imparato, non era un piatto che andasse servito in qualche maniera particolare, ma una scarica di rabbia senza freno ed incontrollata tensione, verso la massima liberazione dell'essere dal cancro dell'ira. Si staccò l'ago ancora conficcato nella vena ed uno zampillo rosso schizzò sul vetro, ingaggiando una gara di velocità con le gocce d'acqua per vedere chi arrivasse prima alla base del finestrino. Ratz. Rognoso cane, ti vengo a prendere. 
Il palmo si chiuse di scatto in un pugno che schiantò sul lunotto, proiettandone i cristalli sul selciato bagnato. Si lanciò fuori dalla vettura e prese a correre nell'oscurità, non curante delle maledizioni del taxista e della pioggia che gli sferzava il volto. Ratz. Ratz. Il nome dell'aguzzino gli rimbalzava nel cervello a ritmo frenetico come uno stiletto acuminato che trafigge il cranio ad intervalli regolari, scavando, penetrando mano a mano sempre più nel profondo. Ratz. Si fermò in un vicolo per orinare e appoggiò la fronte al muro scorticato di graffiti. Il respiro si fece meno profondo. Le vene, che prima gli pulsavano sulle tempie come ali di farfalla, si erano finalmente distese. 
Dietro l'angolo c'era un negozio di liquori, forse il gin avrebbe dato per un momento pace al suo delirio. Ne valeva la pena anche se il cinese dietro il bancone l'avrebbe fatto incazzare sicuramente di più. Lo store era uno di quelli che rispondono al canone: maggior quantitativo di merce nel minor spazio possibile. Passò in rassegna le bottiglie alle spalle del commesso, mentre questo si scrostava il tartaro con il bastoncino di un cotton fioc reciso alle estremità. - Bè che hai da guardare vecchio? La vestaglia dell'ospedale mi sarebbe stata meglio secondo te? Immigrato del cazzo. - Gli lanciò un paio di monete in faccia come se fossero coriandoli a carnevale, uno sguardo truce ed infilò la porta aprendola con un calcio. 
La notte fuori era ancora profonda e la pioggia frustava l'asfalto. Girò il tappo della bottiglia e lo lasciò scivolare per terra. Ratz, alla tua sporco bastardo. Il gin gli scivolò per l'esofago e grattò lo stomaco vuoto che si contrasse in un principio di conato, strozzato immediatamente da una smorfia di disgusto. Si spinse il trench sull'addome come per reprimere la contrazione delle budella che gli si stavano ritorcendo contro. Non mangiava da ore, forse giorni. Chissà per quanto tempo era stato disteso privo di sensi in quel reparto che puzzava di candeggina. Sarebbe stato un bell'affare se fosse morto, che piacere per gli specializzandi in tanatologia. Sorrise beffardamente alla morte e trangugiò un altro sorso. Questo rispetto al precendente gli provocò una sensazione di vago piacere. Ratz. Alla tua lurido cane.
L'organigramma delle più atroci sevizie che avrebbero dato forma alla sua vendetta si stava lentamente sistematizzando nella sua testa. 

Stringeva la bottiglia di gin immaginando di premergli il pomo d'adamo sul fondo della laringe. 
    Riusciva a sentire il suo fiato, affannato da anni di tabagismo e dalla pressione del pollice, che gli spirava la vita in volto, insieme al puzzo legnoso del whiskey. 
     Poteva ascoltare il cigolio scricchiolante del radio e dell'ulna prima di spezzarsi armonicamente sotto il peso del suo corpo. 
  Vedeva la sua testa mozzata rotolare giù per una buca, scavata in qualche campo in periferia ed ivi ordinatamente riposta insieme al resto delle sue membra, premurosamente separate dal tronco.
     Ratz, amico mio, ora ti faccio la festa. Ciucciò un altro lungo sorso dalla bottiglia e fece scorrere la lingua su tutto il labbro superiore, scoprendo un ghigno diabolico.

La strada era ancora lunga e più covava la rabbia più si articolava la sua macabra immaginazione.


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