LA FESTA

"La vita sarebbe sopportabile se non ci fossero i piaceri" (La notte, Michelangelo Anotonioni)


Conobbi Carlotta ad una festa a Roma, nel 1961. Era settembre.
Mio padre ed io eravamo appena tornati da una vacanza a Capri, dove aveva da poco comprato una villa da un noto imprenditore veneziano, ad un prezzo inferiore a quello di mercato.
Fatto insolito dato l'attaccamento morboso ai soldi dei mercanti veneziani e la loro discendenza ebraica. Comunque ricordo con chiarezza che mio padre mi disse che il signore in questione aveva perso una nave che portava delle merci dalla Libia nel corso di un naufragio, quindi aveva probabilmente bisogno di liquidità nell'attesa di incassare l'assicurazione. Poco male per noi.
Ad ogni modo, nonostante le giornate passate al mare o in terrazza a guardare i panfili del jet-set vagheggiare all'orizzonte, la mia pelle era rimasta quasi integralmente bianca. Come quella di una bambola di porcellana.
Il che si addiceva perfettamente al baronetto dell'Oxfordshire quale ero.
Ebbene, la festa si teneva in un palazzo al Gianicolo, uno dei quartieri più in voga all'epoca.
Roma all'inizio degli anni '60 era tutto un fremere: l'Italia stava iniziando ad assaporare il consumistico benessere che poi verrà chiamato "boom economico", i bambini giocavano a palla tra le automobili, la televisione iniziava ad omologare la lingua e le culture italiche, e la capitale meglio di qualsiasi altra città della penisola ne incarnava tutto lo spirito contraddittorio.
Giampiero Visconti celebrava la settima vittoria consecutiva del nuovo baio arrivato in scuderia. Un purosangue da trotto che nel corso degli anni sarebbe diventato celebre in tutta Europa.
Aveva conosciuto mio padre ad Eaton, in barba alla consuetudine che voleva solo studenti rigorosamente inglesi. Ma il padre di Visconti era stato sposato con una nobile del West Midlands e questo, in un modo o nell'altro, doveva valere a giustificare l'accaduto.
  Io e mio padre arrivammo con un'auto presa a nolo. Lui aveva insistito con tutta la spocchia che si deve a un britannico per una Rolls Royce, ma non avendola disponibile il direttore della concessionaria ci offrì una Jaguar e mio padre si dovette accontentare. Ci teneva a rimarcare quanto fosse legato alle sottane della regina. L'autista si chiamava Fabrizio. Ne ricordo il nome perchè fu la prima volta che sentii parlare la mia lingua in modo tanto stentato e con il tipico accento della borgata romana.
  All'ingresso ad accoglierci c'erano due maggiordomi in uniforme bianca e con i guanti e il papillon neri. Quello a sinistra della soglia, dopo un cenno di Fabrizio, andò a prendere le nostre valigie, l'altro, precedendoci, ci introdusse indicandoci con un leggero cenno del capo un lungo corridoio che attraversava l'intero palazzo.
  La villa era quanto di più sfarzoso avessi mai visto: gli uomini della servitù danzavano tra gli invitati e le numerose statue disseminate nel parco antistante, facendo fluttuare sopra le teste di politici, uomini d'affari, scrittori e stelle del cinema vassoi d'argento con calici di champagne. Si sarebbe detto fossi finito nell'opera di qualche impressionista francese, magari proprio di Degas.
Sulle due porzioni di prato separate dal vialetto, erano disposti in maniera speculare tutta una serie di tavolini attorno ai quali la borghesia romana aveva appena iniziato a scambiare i convenevoli con i forestieri accorsi per l'imperdibile evento. Al centro una fontana fungeva da crocevia tra il vialetto principale e un'altra stradina che portava, dopo un centinaio di metri, ad una piscina un po' in penombra, leggermente illuminata dal chiarore lunare che filtrava tra le fronde del grande faggio alle mie spalle.
A fare da cornice una fitta siepe che costeggiava le inferriate poste tutt'intorno la proprietà, ornata con nastri e drappeggi.
  A pochi minuti dall'ingresso nella villa, mio padre mi aveva già abbandonato con gli altri ragazzi che si trovavano lì, raccomandandomi di non cacciarmi nei guai e di non andarlo a seccare.
  Ero pronto a passare una serata orribilmente noiosa. Ma c'ero abituato.
Innanzitutto non ero un ragazzo molto socievole allora, facevo fatica a rapportarmi con i miei coetanei: li trovavo snob e stupidi. Nonostante studiassero nelle scuole più prestigiose del mondo occidentale la maggioranza di loro ignorava le vicende del quotidiano ed era avvezza a lamentarsi del superfluo, come si doveva ai giovani borghesi del primissimo dopoguerra.
In secondo luogo io non parlavo quasi una parola di italiano.
  Mentre pensavo a dove avrei trovato un orologio per osservare il passare del tempo, improvvisamente alle mie spalle una voce femminile, con un forte accento cokney, mi fece fare un sussulto che mi portò improvvisamente oltre manica:
"Ti sei perso per caso?" mi chiese.
Mi voltai e vidi una ragazzina poco più piccola di me, con i capelli corvini avvolti in uno chignon con la crocchia. C'era qualcosa in lei che mi sconvolse subito, ancora oggi non saprei dire cosa fosse.  Forse la sua genuina bellezza o il timbro della sua voce che per nulla si addiceva ad una ragazzina della sua età. Pertanto non risposi e mi limitai a fissarlo con lo sguardo vacuo.
"Oh scusa - continuò - ho capito subito che eri inglese dalla giacca che indossi. L'hai comprata a Savile Row vero? Nessuno quì nei paraggi si darebbe la minima pena per un vestito made in Uk -Come darle torto - "Mio padre è a suo modo molto patriota. Penso che se le facessero si comprerebbe anche le ciabatte da Gieves and Hawkes."

Quella fu l'unica volta in cui ci ritrovammo tutti insieme.

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