IL RITUALE

"Worn like a mask of self-hate / Confronts and then dies / Don't walk away" (Joy Division, Atmosphere)

Definiamo rituale una serie di atti svolti con cadenza regolare e con austera solennità al fine di propiziare un determinato evento. Ebbene per lui ciucciarsi la boccettina di Xanax alle sette in punto della sera era senza ombra di dubbio un rituale. Almeno lo era in principio.
Con il farsi delle stagioni e l'appiattirsi della sua pressocchè inesistente vita sociale, il rituale era diventato parte integrante di una routine logorante.
Il più delle volte si poneva davanti allo specchio, scuoteva la boccetta affinchè il contagocce si sbrigasse a rilasciare la medicina e poi cominciava a contarne inebriato il ticchettio del farmaco che pioveva con dolcezza nella sua bocca. Era solito contare fino a venti o trenta prima di girare di mezzo angolo giro la boccetta e riporla nella tasca della ventiquattro ore dove la teneva.
Altre volte, invece, come se giocasse ad una sorta di roulette russa, cominciava a contare, poi ripeteva lo stesso numero per un serie variabile di volte e così con il numero successivo o quello dopo ancora, lasciando che il caso decidesse quanta merda calare.
Più raramente premeva con dolcezza sulle papille gustative il flaconcino, lasciando che la lingua arsa dall'ansia ancestrale che scandiva la sua esistenza, assorbisse lentamente il liquido decisamente amarotico. Questa operazione era rischiosa perchè non permetteva di quantificare nemmeno approssimativamente il dosaggio. La dose assunta dipendeva dalla siccità delle fauci (indirettamente proporzionale alla capacità di assorbimento) e da quanto tempo teneva la boccetta premuta sulla lingua. Ma il tempo, come dice Bergson, è una variabile soggettiva e lui questo lo sapeva bene. Soprattutto quando esagerava e si trovava a strisciare sulle pareti del mattatoio abbandonato che da casa sua conduceva alla caffetteria del quartiere.
La caffetteria. La caffetteria era il luogo dove più adorava trincerarsi quando esagerava con gli psicofarmaci o con altre sostanze di cui faceva sporadico uso. Era solito, infatti, ordinare un espresso doppio, per compensare al collasso mentale a cui si costringeva per dissoluta dipendenza. Si godeva per qualche minuto l'effetto della caffeina ripristinare la messa a fuoco della realtà, cominciava a contare le bottiglie di liquori disposte ordinatamente alle spalle della cinese che gestiva il bar, per poi ordinare un bicchiere della bottiglia più piena. Solo liquori nazionali ovviamente. La valuta corrente si era fortemente deprezzata negli ultimi anni ed è cosa nota che un impiegato comunale abbia un busta paga, per così dire, piuttosto leggera.
In città lo conoscevano tutti, ma lui avrebbe giurato che non lo conoscesse nessuno. Rapporti di vicinato confinati ad un cenno della testa durante la spola per buttare l'immondizia. Un sorriso tirato quando andava all'alimentari da parte delle commesse, le quali avevano imparato a riconoscerlo per un suo strano vezzo. Quando prendeva a contare i soldi per pagare si irrigidiva e cominciava a tremare in maniera del tutto innaturale, come se aprendo il portamonete fossero usciti tutti i tick nervosi del mondo. Avrebbe probabilmente balbettato qualcosa per spiegarsi se fosse stato in grado di parlare. Ma non si era nemmeno mai degnato di salutare. Dopo le prime volte si erano abituate e di quì il canonico sorriso. Un po' di commiato e un po' di cordoglio. L'anno successivo avrebbero messo il bancomat e non sarebbe più stato necessario pagare in contanti. Una piccola conquista tecnologica della sua drogheria di quartiere che per lui rappresentava la fine di uno delle sue tante psicosi quotidiane. Viveva con sincera trepidazione la venuta di quel giorno e lo avrebbe celebrato in grande stile se avesse avuto qualcuno con cui condividere quel momento. Probabilmente era quella sua mania del contare che lo turbava così profondamente. Questo e la situazione di soggezione in cui si trovava nello stare in piedi mentre la gente lo guardava imbustare il latte e il pane. Non aveva mai capito cosa dovesse fare prima, se pagare o infilare la spesa nella busta. Ad ogni modo, tra tutte le manie e i panegirici mentali a cui si costringeva, quello che più lo teneva in scacco era contare le cose. In un certo luogo, in un certo tempo.

Contava di tutto. Le finestre dei palazzi, i pali delle ringhiere, i piccioni sulle balaustre, le biciclette che passavano in un senso e nell'altro lungo una stessa strada, quelle infilate nelle restrelliere e i posti che queste avevano vacanti. Ma più di ogni altra cosa contare le persone gli dava una irragionevole maggior soddisfazione. Contava le persone in fila alla cassa, i pendolari in piedi sul bus, quelli seduti nella sala d'attesa del medico che gli prescriveva gli psicofarmaci, quelli in comune che aspettavano nervosi il loro turno perchè lui gli mettesse qualche timbro su un pezzo di carta o rilasciasse la copia di qualche atto. Ovviamente contava pure quanti timbri ponesse e copie rilasciasse al giorno. E quando stabiliva un nuovo record, come per premiarsi, immaginava quanti altri timbri posti e atti rilasciati sarebbero stati necessari per stabilire il prossimo. Ovviamente. Come ovviamente era il tipo che saltava i porfidi dispari del lastricato che separava il municipio dalla fermata del tram.

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